SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Nacque a Fontiveros, tra Ayila e Salamanca nel 1.542; il padre di Giovanni, Gonzalo, proveniva da una famiglia prosperosa di mercanti della seta di Toledo, ma fu diseredato per aver sposato una giovane povera e diventò tessitore di seta per sostenere la famiglia.Santa Teresa D’Avila lo trovava ostinato e di vedute ristrette,ma apprezzava la sua spiritualità e la qualità della sua guida a tal punto da prenderlo come confessore e guida. Imprigionato e torturato per fargli cambiare ordine con una roccambolesca fuga sarà assistito proprio dalle sue sorelle carmelitane.
VIDEO-STORIA
Morì quando Giovanni aveva quasi un anno, lasciando la vedova, Caterina, in povertà estrema, sola e con tre figli. La Famiglia attraversò un periodo di grandi privazioni, soffrendo il freddo e la fame; inoltre uno dei figli, Luigi, morì. Giovanni fu mandato in un orfanotrofio a Medina del Campo, dove fu nutrito, vestito e istruito. A quattordici anni diventò apprendista di un carpentiere, poi di un intagliatore di legno e di uno stampatore, ma non era portato per nessuno di questi mestieri. Alla fine trovò lavoro come infermiere in un ospedale fuori città, popolarmente conosciuto come Hospital de las Bubas. Buboo buba in spagnolo significa “piaga” o “tumore”, infatti si trattava di un ricovero per pazienti affetti da malattie veneree. Qui il suo amore per i malati e i poveri crebbe, e anche la disponibilità a svolgere i lavori più umili e spiacevoli. Lavava, puliva e bendava i pazienti nelle condizioni più repellenti, inoltre cantava per loro canti popolari e li faceva ridere. Il suo atteggiamento retto e onesto con la gente, ecclesiastici o laici, ricchi e poveri, uomini e donne, è sottolineato ripetutamente nelle biografie.
L’amministratore
dell’ospedale, notando la sua diligenza e intelligenza, lo mandò al
collegio dei gesuiti all’età di diciassette anni, offrendogli di
diventare cappellano dell’ospedale, a patto di diventare sacerdote.
Giovanni studiò il latino e scienze umanistiche per quattro anni, ma si
sentiva sempre più chiamato alla vita monastica. Una notte bussò alla
porta del priorato dei carmelitani a Sant’Anna e chiese di entrare nell’ordine. Fu accolto e pronunciò la professione l’anno seguente, scegliendo il nome di fra Giovanni di San Mattia;
fu inviato all’università di Salamanca, che era in quel tempo il centro
teologico principale della Spagna, dove uno dei suoi tutori era lo
studioso biblico e poeta p. Luigi de Leon. Giovanni s’impegnò molto, studiò il più possibile e condusse una vita umile e ascetica. Non era molto popolare presso i suoi compagni di studi,
che si lamentavano del fatto che era sempre chino sui libri e li
rimproverava perché non conversavano e si comportavano in modo
appropriato.Nel 1571, Teresa d’Avila diventò priora del convento carmelitano dell’Incarnazione non riformato e chiese a Giovanni di essere suo confessore e guida spirituale. Avevano un rapporto di fiducia (a quanto pare Teresa cucì con le sue mani la prima tonaca di Giovanni), ma non tenero. La prima, energica e pratica, voleva vedere dei risultati, il secondo aveva un carattere puramente contemplativo e non badava ai dettagli, ma come suo confessore, nonostante la giovane età e la bassa statura, non aveva scrupoli nell’esercitate la sua autorità sacerdotale su di lei. Spesso Teresa lo trovava ostinato e di vedute ristrette, ma apprezzava la sua spiritualità e la qualità della sua guida.
L’atteggiamento dei Carmelitani dell’Osservanza non riformati
verso
quelli scalzi si stava irrigidendo, e mentre Teresa era protetta da
Filippo II, Giovanni non lo era. I carmelitani s’appellarono al generale
del loro ordine, che mandò fra Geronimo Tostado in Spagna, con piena
autorità di trattare con i carmelitani scalzi. Giovanni fu catturato e imprigionato a
Medina dall’ordine, tra il 1575-1576 e liberato solo per ordine del
nunzio apostolico, che tuttavia morì. Il suo successore appoggiava
Tostado: nel 1577 Giovanni fu catturato di nuovo e detenuto nel convento
carmelitano a Toledo.La storia della sua prigionia è ben documentata; dopo la sua morte, i frati e le monache che lo conoscevano bene offrirono una serie di deposizioni a testimonianza delle privazioni che aveva sopportato nella cella della prigione. Queste testimonianze talvolta differiscono nei dettagli minori, come in genere tutti i racconti dei testimoni, ma le circostanze generali sono abbastanza chiare. Trascorse la maggior parte del tempo al buio totale; c’era una finestrella in alto sul muro, larga pochi centimetri, ma non si affacciava all’esterno del convento, quindi riusciva a leggere l’Ufficio divino solo per brevi intervalli, quando qualche raggio di sole penetrava nella sua cella per pochi minuti, ed era costretto a stare in piedi su una pietra (o forse su una panca).
La cella era gelida d’inverno e soffocante d’estate, e Giovanni vi trascorse otto mesi e mezzo, senza poter comunicare con nessuno eccetto che con il suo frate carceriere, che lo trattava con odio e lo calunniava. Era quasi ridotto alla fame e infestato dai parassiti, inoltre veniva regolarmente flagellato in capitolo, per costringerlo a cambiare idea e ad abbandonare i carmelitani scalzi: ne portò i segni per tutta la vita.
Gli giunse poi la falsa notizia che anche S. Teresa d’Avila si
trovava in prigione, e che lui sarebbe morto nella propria cella.
Giovanni temeva che stessero avvelenandolo lentamente; non poteva
leggere, né scrivere (solo negli ultimi giorni di prigionia, un
carceriere meno crudele gli portò del materiale per scrivere e una
candela). La sua paura più grande era aver sbagliato a
disobbedire ai superiori dell’ordine, dopo tutto, con il rischio perciò
di perdere la sua anima.
violazione
delle regole, trovò la scusa che una monaca malata desiderava
confessarsi; poi le monache assistettero Giovanni, curarono le ferite e
gli portarono pere stufate con cannella, tutto ciò che era in grado di
mangiare.Quando giunsero i frati e il connestabile a cercarlo, la priora rifiutò di farli entrare, così i monaci perlustrarono la chiesa e la parte esterna dell’edificio, ma non osarono violare la clausura. Quando se ne furono andati, Giovanni si recò in chiesa e cominciò a dettare i suoi componimenti; ne teneva alcuni in un libretto che si era portato con sé dallaprigione, e ne aveva altri in mente. Madre Maddalena del Santo Spirito, del convento di Beas, dove Giovanni era stato confessore per qualche anno dopo la fuga, scrisse un resoconto della sua vita, e accenna al fatto di aver visto il libretto. Giovanni le permise di farne una copia, ma qualcuno lo sottrasse dalla cella della priora. […]
prove
della sua condotta scandalosa con l’intenzione di farlo espellere
dall’ordine, e quando Giovanni s’ammalò, si recò al convento di Ubeda,
dove fu maltrattato da un prioreostile e vendicativo. Soffrì molto, ma si sottomise con coraggio e allegria alle umiliazioni a lui riservate.

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